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Come pittore, Tita Marzuttini è un isolato nel panorama artistico dei primi decenni del secolo. La pittura friulana, tra l'Otto e il Novecento, guarda a Venezia e a Monaco, si caratterizza per una molteplicità di influssi, seppur derivati per via provinciale: la delicatezza boldiniana di Domenico Someda, l'eclettismo esemplato su testi settecenteschi e liberty di Arturo Colavini, l'espressionismo floreale di Umberto Martina, il post-impressionismo carnico di Marco Davanzo, l'estro popolare di Tita Gori, che rifà istintivamente i preraffaelliti, e di Enrico Ursella, fino alle coraggiose e innovatrici aperture divisioniste di Giovanni Pellis, sono tutti motivi che si ritrovano anche in altri artisti dell'epoca.

Tita Marzuttini vive invece la sua avventura figurativa in una posizione tutta appartata, di solitudine idealizzata. Ed è un appartarsi, il suo, non soltanto linguistico, ma di atteggiamento umano.

Egli si forma, anzitutto, in un ambiente abbastanza inusuale per i pittori friulani, l'Accademia di Firenze, quando è ancora viva la presenza dei macchiaioli (Antonio Coceani, quasi quarant'anni dopo, frequenterà la stessa Accademia, ma con successive integrazioni veneziane). Espone raramente e ha scarsi contatti con la pittura militante dell'epoca; sappiamo soltanto che nel 1890 venne lodato e premiato da Ettore Tito, il «principe», allora, dell'arte veneziana. Sostenuto da una tecnica raffinatissima tanto nell'olio quanto nell'acquerello e nell'incisione, è equilibrato, diligente, di una diligenza come asettica e tanto puntigliosa da rasentare a volte l'impersonalità, fin dalle prime opere, e tale resterà anche in quelle della maturità e della vecchiaia.

Marzuttini, insomma, non registra lo svolgersi della storia. Si esibisce con molte preziosità in tante variazioni su di un medesimo motivo: il pittoresco, il romantico inteso come «genere», come sentimento diffuso che anima la borghesia del tempo. Egli cerca nello sfogo artistico l'evasione, si illude di stabilire con la natura un rapporto di contemplazione ferma, estranea alle leggi proprie della natura stessa, che è, sì, bellezza, ma è anche drammaticità, tensione, mutamento.

Suoi temi preferiti sono i paesaggi, i ritratti, i fiori, gli animali, resi con un disegno nitido, con un colore morbido a tocchi e a macchie, ma privo di mistero e di scatti emotivi. Un colore dolce, che arriva a modulati virtuosismi (come i boschi screziati da diverse e musicali tonalità di verde); una ricerca del patetismo compiaciuto, come in certe teste di cani raffigurate con intensità «parlante» e in taluni ritratti di vecchi bevitori, nei quali a colpire e a «commuovere» sono, soprattutto, i contenuti dell'immagine, serviti da una forma che vuole annullare se stessa per esaltare al massimo la sostanza narrativa.

C'è, però, una tela che si distacca dalle altre per forza di linguaggio. Ed è quella che intitolerei «Siesta». Rappresenta la moglie del pittore mentre legge il giornale su una sedia a sdraio. Lo scenario è il cortile della casa di Fauglis, dove Marzuttini si era ritirato al suo rientro in Friuli dopo la guerra mondiale e dove visse fino ai suoi ultimi giorni: un muro, una finestra, lo scorcio di un pollaio, un pergolato verde tramato di luce. Vi affiorano l'educazione fiorentina di Marzuttini, la sua consuetudine con le opere dei macchiaioli che egli certamente amò. Similmente a quanto avviene nelle composizioni di Silvestro Lega, il colore turba i profili e imprime un andamento più mosso e drammatico alla figura e all'ambiente, sentito con una foga inedita che guadagna in forza plastica, che diventa vibrante e avvolgente e si arricchisce di letterari succhi.

E ricorderei, ancora, la «Fanciulla con gatto» (ritrae la sorella del pittore), essenziale nei volumi, costruita a blocchi, di rossi e di bianchi di acceso contrasto. In quest'opera il momento sentimentale e di racconto è tutto implicito, mentre a dominare veramente è la robusta e severa forza figurale.

Una carica favolistica, di timbro nordico, hanno poi alcune acqueforti che rappresentano bambine perdute nella trama fitta e come sognata di boschi; sono composizioni che segnano sicure impennate della fantasia; e sono impennate, soprattutto, d'istinto e di gusto.

La molteplicità d'interessi in campi e in attività diverse impedì a Marzuttini di dedicarsi alla pittura con un impegno professionale, dove professionalità non significa soltanto padronanza dei mezzi tecnici, che il pittore mostrò di possedere con una sicurezza e un'abilità addirittura da virtuoso, ma approfondimento, attraverso la ricerca sul linguaggio, di un proprio mondo spirituale, di una propria posizione nei confronti della storia. Le sue immagini hanno una musicalità popolaresca, tenue, soddisfatta di sé, svincolata da problemi.

Dipingere, per Marzuttini, era un modo di gioire delle piccole cose che gli stavano intorno. Questo era il suo obiettivo e questo obiettivo egli seppe perfettamente centrare.


Licio Damiani

(Udine, maggio 1986)

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